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Conversando con Enrico Rava
Enrico Rava, il nostro jazzista più noto a livello internazionale, racconta. Di sé, della musica, di attualità e politica, dei tempi che passano, di quello che ne resta.

SULLA MUSICA, SULLA VITA.
L’età anagrafica non esiste se non in termini di malattia. Se una persona ha la fortuna, come me, di fare un lavoro che ama, ed è accompagnata da una buona condizione fisica, continua a far vivere il suo essere bambino. La vecchiaia senza malattia è inoltre occasione per migliorarsi. Come è accaduto a me: caso raro di un musicista che si è perfezionato nel tempo, diventando oggi migliore. Perché non mi sono fermato, non mi sono accontentato come capita spesso agli artisti intorno ai 40 anni, quando sentono di aver raggiunto l’apice e continuano a fare le stesse cose senza più curiosità e voglia di provare. Invece io ho scelto di andare avanti, non ho mai studiato prima e ho deciso di iniziare a farlo qualche anno fa: la mia tecnica sta migliorando e il mio rapporto con la musica è rimasto lo stesso, se non migliore, dei miei inizi. Un rapporto che è prima di tutto senza compromessi. L’unico limite che mi pongo è il piacere che nasce dalla musica. Non avrei problemi a partecipare a San Remo, se la musica che avrei l’opportunità di suonare mi piacesse. Molti sono stati i miei rifiuti, anche a fronte di altissimi compensi, a offerte di fare qualche “solo” in dischi di artisti famosi. Non certo per moralismo, perché non ho nulla contro il guadagno di soldi e se ne prendessi il quadruplo sarei anche più felice, ma per quel mio unico limite: non mi piaceva la musica proposta. Opposto motivo per cui ho suonato con Gino Paoli e con Fossati.
Questo è uno dei vantaggi della notorietà: la possibilità di fare, entro una certa misura, quello che si desidera. Poter scegliere. Peccato che il mio sogno nel cassetto sia di quelli che il successo non può comprare: fare un disco con alcuni grandi artisti del passato scomparsi da vent’anni. Gli stessi che ammiravo quando per me erano irraggiungibili e che continuano a esserlo in modo diverso adesso che avrei potuto raggiungerli. Un sogno destinato a restare irrealizzabile.

Uno sguardo al passato che si impone, visto il periodo di stasi che dura da vent’anni nella musica jazz. Un periodo che è tuttavia breve se paragonato al corso della storia della musica, come della storia in generale. Basti pensare al periodo di buio che ha seguito il Rinascimento in Italia e che ancora deve terminare, non illuminato neanche dal neorealismo. Non mancano e non mancheranno comunque le casualità, circostanze in grado di favorire la nascita di veri e propri talenti, come accaduto nell’America all’inizio del secolo e fino agli anni ’60. Ed è con questa speranza, con il possibile superamento di stereotipi e luoghi comuni che hanno finora caratterizzato la storia della musica, che magari fra qualche anno arriveranno degli artisti in grado di competere con i grandi di ieri. Perché oggi non ci sono musicisti in grado di competere artisticamente con nomi come Duke Ellington, Amstrong, Charly Parker, Billy Holiday. Capaci di suonare meglio forse, ma non della medesima altezza artistica. Uno spirito comune anima comunque tutti i musicisti jazz: la passione. A differenza di un cantante pop, chi suona musica jazz lo fa prima di tutto e sempre per passione, se fosse interessato ai guadagni farebbe certamente altro. Il rapporto con la musica si mantiene quindi sempre puro, nonostante il rischio cui l’evoluzione della propria immagine espone. Il rischio di trasformarsi nei modi di presentarsi e negli atteggiamenti, un po’ nella caricatura di se stessi. Un esempio che mi viene in mente è Miles (Davis), che lo è diventato negli ultimi tempi, nonostante resti il più grande e indiscusso jazzista moderno. Una differenza enorme corre infatti tra i DVD degli anni ’60, in cui compare elegante e concentrato e i filmati dell’ultimo periodo, in cui si mostra letteralmente vestito da “pagliaccio”. Forse a lui poteva sembrare bello o divertente, ma era solo brutto.

SULLA MUSICA PROPRIA.
Perché la tromba. Fin dagli 8 o 9 anni ho iniziato a essere appassionato di jazz. Avevo già una collezione di molti dischi e i miei idoli erano Dixie Gillespie Louis Amstrong, Miles.
Nel ’56 ho assistito a un concerto di Miles a Torino e il giorno dopo ho subito acquistato una tromba. Quella che sarebbe rimasta la mia scelta. E non bastava perché io volevo proprio il bocchino usato da Miles, fin da quando ero un ragazzino. Volevo proprio quello perché ero sicuro fosse adatto al mio tipo di labbro, soltanto dalla descrizione che ne faceva Miles. Ma non si trovava, non lo faceva nessuno. Così, ho lottato per tanti anni con bocchini che sentivo scomodi finché non ho trovato proprio quello che volevo, scoprendo di aver sempre avuto ragione: è stato un vero amore a prima vista. Scoperta che mi ha portato a decidere di dedicarmi solo alla tromba lasciando il filicorno, che ho ripreso da poco dopo almeno due anni. Non lo suono però nell’ultimo disco perché non mi sembra di ottenere lo stesso risultato della tromba. Inizialmente ogni musicista sceglie di emulare i grandi suonando le stesse trombe: Miles, Gillespie, Chet Baker, suonavano la Martin e io facevo lo stesso. Ma con il tempo cambiano i gusti e la qualità costruttiva e non sempre mantenere la prima scelta è la decisione giusta. Oggi suonano molto bene le Bach.
Nella mia formazione è stata determinante, con la scelta dello strumento, l’esperienza vissuta a New York durante quegli anni in cui la città era il centro del mondo dal punto di vista musicale. E questo mi ha aiutato nel conquistare una certa notorietà. Oggi invece il centro del jazz, da New York è diventato Parigi - in modi però non paragonabili -, l’Europa più che l’America. Non altrettanto determinanti per il mio successo sono stati gli studi. Non prendevo lezioni e ho imparato da autodidatta: ero troppo incostante e indisciplinato per studiare. Il suono, come la voce, è qualcosa di intimo e personale, un modo di essere. Il suono è quello della prima nota che fai e il risultato della personale rielaborazione della musica che ascolti, e io amavo un suono scuro e non squillante.

SUGLI ULTIMI DISCHI.
L’ultimo disco ha perso un polo di attrazione molto forte, ma anche accentratore in modo che tende a diventare esclusivo. Questo è l’effetto della musica di Bollani: l’attenzione rimane fissata su di lui, essendo un musicista straordinario, con il pericolo di creare squilibri interni e piccole gelosie all’interno del gruppo. In questo disco abbiamo guadagnato così in equilibrio, riuscendo in nuovi intenti creativi e scoprendo qualcosa di nuovo nel nostro fare musica. Nell’ultimo disco e nel precedente, molto si è parlato anche del ruolo di Eicher alla realizzazione. Prima di tutto va sottolineato che il suo modo di intervenire è sempre e comunque improntato alla massima libertà di espressione. Soltanto quando non sappiamo cosa fare e come risolvere un problema, lui arriva in nostro soccorso. In questo senso si può dire che è il sesto musicista, proprio come è accaduto nel caso di Volver con Dino Saluzzi per una mia scelta sbagliata del batterista. E nel trio, anche, si può dire che sia il quarto musicista per il motivo che l’ha ideato lui. Il quintetto invece funziona bene da sé ed Eicher se ne sta seduto a godersi la musica. Insomma, è un po’ un mito che rivoluzioni tutto: il suo contributo è piuttosto come effetto e riflesso, o a livello organizzativo come per la scelta della scaletta. A volte non concordo ma alla fine ha sempre ragione lui.

SULLO STATO DELLA MUSICA OGGI.
Aspetto fondamentale nella fruizione della musica è certamente la distribuzione. Sapere che non si farà economia e che si investiranno tempo ed energie nella qualità non è un aspetto di interesse secondario. Da questo punto di vista, la ECM è probabilmente l’unica etichetta in grado di garantire una presenza internazionale come le major pur non essendolo. La mia scelta di lasciare, tanti anni fa, la ECM è stato un errore nato dalla voglia e dal desiderio di fare più dischi. Con la conseguenza di averne poi fatti troppi. Essere seguiti da un produttore discografico capace come Manfred Eicher, che è anche musicista, avendo inciso tra gli altri Benedetti Michelangeli e Keith Jarrett, può dare un valore aggiunto importante alle proprie scelte. Una distribuzione efficace è importante anche in vista del fenomeno crescente dei download. Per fortuna, però, questo è un aspetto che ancora tocca soltanto marginalmente il mondo del jazz, fatto quasi esclusivamente di collezionisti che amano l’oggetto da tenere, la copertina, le fotografie. Il fenomeno iPod colpisce certamente in misura maggiore il mondo della musica pop e lede le grandi catene di distribuzione. In questo modo si tornerà ai piccoli negozi specializzati, come quello di Rapallo vicino casa mia che ho convinto a investire nel jazz e che ne è diventato il più fornito insieme alla musica classica. Con il risultato che si trovano più dischi a Rapallo che a Milano, attirando gli appassionati che affluiscono in provincia. Un cambiamento sicuramente collegato allo stato attuale della musica in Italia, alle sue difficoltà e alle possibili soluzioni.
La cultura musicale del nostro Paese potrebbe essere certamente favorita e aiutata da determinate scelte politiche, ma non credo serva a molto cercare di convincere qualcuno a fare qualcosa. Il motivo è che o dai politici non vieni ascoltato, perché senza interesse o sensibilità all’argomento, o, se ne hanno, si muovono da soli, di propria iniziativa. Un esempio a riguardo è Walter Veltroni, che sta aiutando il settore con iniziative autonome ed è proprio grazie a lui che il jazz a Roma ha praticamente triplicato il suo pubblico, influenzando anche altre città. Nonostante Veltroni, in occasione di Save The Children, sia riuscito a far stringere la mano a un sindaco palestinese e a uno israeliano, non credo che la musica abbia questo potere di annullare le distanze parlando un linguaggio condiviso. Prima ne ero convinto, adesso do alla musica un altro valore: quello di arricchire la vita di chi ne trae piacere. Come l’arte in generale, del resto.

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